sabato 25 febbraio 2012

Recensione di Claudia Placanica a "Dialogo…?"

Se al posto del modello bigrigio unificato della Sip e della macchina da scrivere
ci fossero un cellulare e un notebook, Dialogo apparterrebbe completamente al nostro tempo digitalizzato, ma bene ha fatto il regista Tesi a mantenerlo in quello immaginato dalla scrittrice. Lo spettatore analogico lo può osservare con un programmato e apparente distacco spazio-temporale, ma sa che ad esser messa in scena è la sua drammatica temporalità.L’implosione di una coppia in un interno borghese diviene un’analisi bio-antropologica dei sentimenti. Si tratta di una tematica molto frequentata negli anni 70, e non solo in Italia. Non è un caso che Natalia Ginzburg abbia operato un’apprezzata critica del cinema di Bergman, quel cinema che spesso ha posto al centro lo scavo dei rapporti di coppia. Qui, però, c’è lo specifico storico-sociale italiano su cui si sedimenta l’iter che il
1º dicembre1970
introdusse il divorzio nella cattolicissima Italia mantenuto, poi, attraverso un Referendum abrogativo del 1974, dimostrando quanto il popolo italiano fosse adulto e autonomo rispetto alle gerarchie ecclesiastiche. Sono passati quasi quarant’anni e i divorzi aumentano e non perché le coppie vadano meno d’accordo di allora, ma solo per la volontà di sottrarsi alla menzogna di un esistere di coppia. La temperie degli anni Settanta si esprime anche nella ribellione velleitaria di una gestualità contratta e violenta. Andrea Gonfiantini incarna con la giusta “overdose” di aggressività il marito-scrittore frustrato e irrisolto, sprezzante e manesco nei confronti di Priscilla Baldini, una moglie dimessa, il cui maggior “appeal “
coincide con l’indifferenza verso il partner. Non un “c’era una volta”, dunque,
ma solo un “adesso” e: guardate bene. Questi siete voi – cari spettatori - che, nascosti dalle mura delle vostre dimore, restate invisibili, ma consapevoli di essere anche voi parte di quanto avviene in scena. Quel telefono è solo un feticcio, una memoria del mondo esterno:
siete voi qui rappresentati da due attori che vibrano in un’angusta camera
della tortura (proprio quella con cui Macchia definiva il teatro pirandelliano)
in cui voi interpretate il vostro ruolo involontario e da cui difficilmente vi
salverete. L’”acqua nera” del marito è il disagio che prende spessore nelle
parole urlate contro la moglie-estranea il cui adulterio completa la comune
vocazione al malessere. La dimensione dell’Es si avvale dei monologhi al microfono, la presenza di una figlia e della cameriera si manifestano attraverso voci fuori campo. Il rimbalzarsi di domande dalle risposte sbagliate ci chiarisce definitivamente quanto i due abbiano deliberatamente scelto come proprio destino l’eutanasia, la cui realizzazione è evidente nella scena in cui, una dietro all’altro, carponano sul letto cercando la verità delle loro persone al di là della finzione di esser coniugi che non condividono più alcuna sorte programmata. Lo spettatore, al termine, sfidato, esce sgomento, unica vera vittima disorientata da un’implacabile analisi che sembra ricamata sugli ultimi brandelli di una dignità ormai sopraffatta da un Dialogo rafficante e lancinante. Non quello del titolo, ma quello che mai sembrava dovesse accadere, ma è già accaduto.

giovedì 9 febbraio 2012

presentazione di Elena Bernardini, "Dialogo ... ?"

Interno mattina. Camera da letto.

Francesco e Marta. Dialogo...? Si direbbe piuttosto un surreale lessico famigliare che
evoca figure e sentimenti, in modo a volte paradossale, talvolta tenero, spesso isterico.

Altri personaggi, figure comprimarie assenti fisicamente, fanno da filtro e giustificano una particolare incomunicabilità di sentimenti che caratterizza la coppia. Saranno persone
reali, oppure fantasmi, funzionali alla ricerca di un argomento di cui parlare, per non perdersi nel vuoto della vita quotidiana, fatta di panni da lavare e da bollette da pagare?

Sicuramente, sulla scena, sono personaggi. Anche se non visibili. La coppia, indolente ed
insolente, si cerca. L'uno cerca l'altra, con una complicità che non riescono a trasformare in un rapporto normale- ma solo per pigrizia.
Gli attori sono chiamati ad un lavoro sul linguaggio, sui significati nascosti nelle frasi e nelle espressioni senza senso, sulla finta distrazione dall'attenzione per l'altro/a. La regia incalza con un ritmo quasi mentale, di linguaggio interiore non comunicabile solo con le parole, quasi meglio con l'assenza di gestualità. Eppure, a volte, l'azione diventa paradossalmente evidente.

L'anima della scrittrice si presenta con integrazioni da altri suoi scritti: bombe nella routine dei due giovani.

E.B.