martedì 19 giugno 2012

Casa Circondariale di Pistoia, Via dei Macelli, 13 - 19 giugno 2012 ore 10:00



Gianfranco Pedulla' ritratto da Matteo Bertelli


Casa Circondariale di Pistoia, Via dei Macelli, 13 - 19 giugno 2012 ore 10:00, “L’ARTE: RICERCA E RISPOSTA”. 
Evoca un film espressionistico delle avanguardie tedesche, Il gabinetto del Dottor Caligari (1919) di Robert Wiene , la piecé sapientemente diretta da Gianfranco Pedulla’, interpreti i detenuti  del carcere di Pistoia. A tale riguardo il poeta Gottfried Benn (Prussia 1886 – Berlino 1956) avrebbe affermato che l’artista espressionista portava impresso “il cuore disegnato sulla camicia”, splendido assioma che mette a nudo colui che si lacera il petto esponendo al mondo il proprio,autentico sentire. E’ questa l’immagine che esplode in una  tragicità totale. Il progetto rieducativo  sostenuto dalla Regione Toscana,  palesa in questo contesto una sacralità disarmante ed inquietante. Il detenuto attore è chiamato a mostrarsi, su un palcoscenico spoglio fra  mura soffocanti e distorte, in una scenografia “surreale”. Lo spettacolo è ambientato nella palestra  del penitenziario, perfettamente attrezzata allo scopo. E come in quel film ci troviamo al cospetto di un puntuale imbonitore, prestato ad un teatro senza fissa dimora, il quale presenta, a differenza di Caligari, non un sonnambulo che dorme in una bara, ma un folto gruppo di troppo giovani artisti. Inizia dalla fine,dai ringraziamenti che un’ improvvisata “Compagnia di Guglielmo Canino”, deve al pubblico. La ballerina, il mago, l’uomo panzuto, in un primo momento assenti al plauso del pubblico, è questa la prima suggestione, non tardano, poi ad arrivare, raccontandoci la loro verità.  “Quando sarà saldato il debito pubblico?”, “Di questi tempi dove andremo a finire ?”, “Di questi tempi … la felicità?”. Domande forti echeggiano nella sala frutto di un canovaccio precedentemente strutturato dai protagonisti. La rappresentazione rimanda “hic et nunc”, senza indulgenza, non lasciando spazio alla pietas, non nascondendo sofferenza e dolore,  al vissuto reale degli artisti. Questo è ardentemente desiderato,   non astratto,  rivisitazione del proprio essere ,  conoscenza del sé. Catarsi.
Eppure sono bravi questo gruppo di quattordici saltimbanchi, stretti nei loro costumi cabarettistici ed in alcuni momenti , tu spettatore , dimentichi di essere in un mondo altro, se non fosse l’aver dovuto percorrere, per assistervi, quel sentiero faticoso fatto da portoni blindati  che si chiudono alle spalle. Se non fosse per quei cancelli enormi, sorvegliati  sì da uomini cortesi, ma in rigorosa divisa. La musica proposta profusa da un’  armonica, da un violino e da una tromba, sottolinea le varie azioni, mimiche, che richiedono un’ enorme fisicità, uno scatto ironico e divertente, tipico di un cabaret anni trenta dal vago sapore brechtiano. La finalità didattica è ben presente e viene sottolineata dal quadro che chiude la prima parte delle varie scene, con quella frase che è difficile dimenticare, ti entra nello stomaco, nella braccia, sotto la pelle. A turno viene formulata la  domanda, che potrebbe suonare retorica, ma difficilmente obliabile e giustificabile: “Sei triste ?”chiede l’attore al comprimario, non c’è tempo di una risposta perché subito un’altra domanda repentina viene posta, “Hai fame?”, nonostante il “No”, ecco l’invito,  provocazione struggente: “E mangia”,  la risposta adeguata. Salmo ripetuto da tutti gli artisti:  è  questa la  geniale trovata di Pedulla’, che dotato gli interpreti di un sedano in mano, quale scettro di povertà di intenzioni,  necessità della totale nudità del sentire. E’ per lo stesso motivo che al termine della prima parte gli attori si improvvisano camerieri ed in modo ironico ci fanno partecipi di un rinfresco fatto di bigné di crema e di aranciata. “Mangia” , è l’invito funesto, mangia anche se “non hai fame”, per dimenticare dove ti trovi, per farti  riflettere a pancia piena di una condizione estrema,  cui sei chiamato ad assistere.  E poi lo spettacolo riprende con le confidenze recitate con il sostegno di un foglietto: “Quanto tempo è passato … ogni giorno che passa il topo che mangia il mio piede diventa sempre più grasso”, formula un attore dal fisico possente, ed ancora altre confidenze vengono sussurrate. Gli attori  disposti  in cerchio, con il volto mascherato di bianco, ballano quando la musica cessa di  colpo, e quando la musica esiste,  immobili, marionette indisciplinate. Cosa vuole suggerirci lo spettacolo ? Il non saper andare a tempo, può indurre in errore?  Oppure è opportuno accontentarsi della risposta  che l’evento effimero del teatro concede, lì, dove il tempo trascorso, detiene un ritmo diverso rispetto al nostro, estranei di passaggio.

Giuseppe Tesi