Gianfranco Pedulla' ritratto da Matteo Bertelli
Evoca un film espressionistico delle avanguardie tedesche, Il
gabinetto del Dottor Caligari (1919) di Robert Wiene , la piecé
sapientemente diretta da Gianfranco Pedulla’, interpreti i detenuti del carcere di Pistoia. A tale riguardo il
poeta Gottfried Benn (Prussia 1886 – Berlino 1956) avrebbe affermato che
l’artista espressionista portava impresso “il cuore disegnato sulla camicia”,
splendido assioma che mette a nudo colui che si lacera il petto esponendo al
mondo il proprio,autentico sentire. E’ questa l’immagine che esplode in una tragicità totale. Il progetto rieducativo sostenuto dalla Regione Toscana, palesa in questo contesto una sacralità
disarmante ed inquietante. Il detenuto attore è chiamato a mostrarsi, su un
palcoscenico spoglio fra mura soffocanti
e distorte, in una scenografia “surreale”. Lo spettacolo è ambientato nella
palestra del penitenziario, perfettamente attrezzata allo scopo. E come
in quel film ci troviamo al cospetto di un puntuale imbonitore, prestato ad un
teatro senza fissa dimora, il quale presenta, a differenza di Caligari,
non un sonnambulo che dorme in una bara, ma un folto gruppo di troppo giovani
artisti. Inizia dalla fine,dai ringraziamenti che un’ improvvisata “Compagnia
di Guglielmo Canino”, deve al pubblico. La ballerina, il mago, l’uomo panzuto,
in un primo momento assenti al plauso del pubblico, è questa la prima
suggestione, non tardano, poi ad arrivare, raccontandoci la loro verità. “Quando sarà saldato il debito pubblico?”,
“Di questi tempi dove andremo a finire ?”, “Di questi tempi … la felicità?”. Domande
forti echeggiano nella sala frutto di un canovaccio precedentemente strutturato
dai protagonisti. La rappresentazione rimanda “hic et nunc”, senza indulgenza,
non lasciando spazio alla pietas, non nascondendo sofferenza e dolore, al vissuto reale degli artisti. Questo è ardentemente
desiderato, non astratto, rivisitazione del proprio essere , conoscenza del sé. Catarsi.
Eppure sono bravi questo gruppo di quattordici saltimbanchi,
stretti nei loro costumi cabarettistici ed in alcuni momenti , tu spettatore , dimentichi
di essere in un mondo altro, se non fosse l’aver dovuto percorrere, per assistervi,
quel sentiero faticoso fatto da portoni blindati che si chiudono alle spalle. Se non fosse per
quei cancelli enormi, sorvegliati sì da
uomini cortesi, ma in rigorosa divisa. La musica proposta profusa da un’ armonica, da un violino e da una tromba,
sottolinea le varie azioni, mimiche, che richiedono un’ enorme fisicità, uno
scatto ironico e divertente, tipico di un cabaret anni trenta dal vago sapore
brechtiano. La finalità didattica è ben presente e viene sottolineata dal
quadro che chiude la prima parte delle varie scene, con quella frase che è
difficile dimenticare, ti entra nello stomaco, nella braccia, sotto la pelle. A
turno viene formulata la domanda, che
potrebbe suonare retorica, ma difficilmente obliabile e giustificabile: “Sei
triste ?”chiede l’attore al comprimario, non c’è tempo di una risposta perché
subito un’altra domanda repentina viene posta, “Hai fame?”, nonostante il “No”,
ecco l’invito, provocazione struggente:
“E mangia”, la risposta adeguata. Salmo
ripetuto da tutti gli artisti: è questa la
geniale trovata di Pedulla’, che dotato gli interpreti di un sedano in
mano, quale scettro di povertà di intenzioni, necessità della totale nudità del sentire. E’
per lo stesso motivo che al termine della prima parte gli attori si
improvvisano camerieri ed in modo ironico ci fanno partecipi di un rinfresco
fatto di bigné di crema e di aranciata. “Mangia” , è l’invito funesto, mangia
anche se “non hai fame”, per dimenticare dove ti trovi, per farti riflettere a pancia piena di una condizione
estrema, cui sei chiamato ad assistere. E poi lo spettacolo riprende con le
confidenze recitate con il sostegno di un foglietto: “Quanto tempo è passato …
ogni giorno che passa il topo che mangia il mio piede diventa sempre più
grasso”, formula un attore dal fisico possente, ed ancora altre confidenze
vengono sussurrate. Gli attori disposti in cerchio, con il volto mascherato di bianco,
ballano quando la musica cessa di colpo,
e quando la musica esiste, immobili,
marionette indisciplinate. Cosa vuole suggerirci lo spettacolo ? Il non saper
andare a tempo, può indurre in errore? Oppure
è opportuno accontentarsi della risposta che l’evento effimero del teatro concede, lì, dove
il tempo trascorso, detiene un ritmo diverso rispetto al nostro, estranei di
passaggio.
Giuseppe Tesi
Nessun commento:
Posta un commento